Canto d'Igea.

Cartina dell'Italia

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Canto d'Igea.

Lirica di Giovanni Prati, pubblicata nel 1868. Il componimento fa parte del poema Armando, e ne costituisce il brano più significativo e notevole. Si inizia con una rassegna degli uomini cari a Igea, dea della salute e personificazione della terra madre. A questi uomini, pastori, agricoltori, guerrieri e marinai, ella concede i tesori del sonno e del cibo, e a lei essi ricorrono quando lo spirito, in tormentoso travaglio, cede alla stanchezza e l'equilibrio fra corpo e mente s'infrange. Ritemprandosi poi al "nappo della vita", essi si risollevano in lei, in una equilibrata armonia di forza e di pace. Così avviene per il protagonista Armando che tanto ha invocato la dea. La bellezza di quest'ode deriva appunto dalla freschezza agreste della natura che in essa viene esaltata. Carducci, paragonandola a un coro di Sofocle, vi scorse un alto lirismo commisto a visioni di rara bellezza e semplicità.

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Lìrica.

Componimento poetico. Sin dall'antichità la l. è la forma poetica in cui trova espressione il sentimento personale dell'artista, comprendente la dimensione psicologica, introspettiva, memoriale e fantastica dell'io. Dalla l. greca, che prevedeva l'accompagnamento della musica (il nome deriva dalla lira, strumento a corde di cui ci si serviva per sottolineare ritmicamente le parole) derivano tutte le diverse tipologie e le loro strutture metriche e stilistiche. ║ Insieme di composizioni coeve omogenee, tradizione poetica in genere riferita ad un popolo, ad una regione geografica, sulla base di affinità storiche, filologiche e stilistiche (l. provenzale, l. romantica). ║ Breve componimento musicale per canto e pianoforte o per altri strumenti d'accompagnamento. ║ Musica operistica, sinonimo di melodramma. - Lett. - Poesia inizialmente destinata al canto, come avveniva nell'antica Grecia. In seguito, questo termine ha abbracciato ogni componimento in cui emergesse la soggettività dell'artista in rapporto al mondo, il suo modo personale di esprimere la realtà che lo circonda. La l. è nata in contrapposizione all'epica, che canta invece le gesta dell'eroe proiettato in uno scenario mitico e atemporale. Attualmente l'odierna denominazione di l. serve a indicare sia certe forme di componimento di solito brevi (elegia, epigramma, canzone, sonetto), sia l'affiorare in una composizione, anche in prosa, di un sentimento affettivo ed emotivo, l'espressione di un particolare stato d'animo. Vale la pena di tracciare seppur per sommi capi l'evoluzione di questo genere letterario. Nell'ambiente mediterraneo che fece da culla alla l., i Greci designarono con tale termine, legato a mélos (da cui deriva anche il nome di melica, altro nome della l.), un componimento destinato al canto e all'accompagnamento musicale di strumenti a fiato e a pizzico, talora allietato anche con danze. L'importanza della l. crebbe a partire dall'VIII sec. a.C., diffondendosi in tutto il mondo egeo, nelle due forme di l. monodica e l. corale: la monodica (per una sola voce) fiorì soprattutto nell'eolia Lesbo (maggiori poeti: Saffo e Alceo); la corale (cantata da un coro), apparve più legata alle genti doriche (principali artisti: Alcmane, Simonide e Pindaro) e divenne ben presto una delle espressioni più autentiche della vita della polis, dalle feste religiose alle celebrazioni civili. Con il tempo, il termine l. abbracciò un ambito più ampio, comprendendo anche generi come l'epigramma o l'elegia che non prevedevano il canto: in età alessandrina e più tardi nel mondo romano si perse l'accompagnamento musicale e poeti come Callimaco, Catullo o Orazio continuarono ad esser definiti "lirici" sebbene i loro versi non contemplassero più un sottofondo musicale. ║ L. moderna: le sue origini vanno ricercate nel Medioevo e precisamente in quelle composizioni da recitarsi con accompagnamento musicale (albe, pastorelle, canzoni). Dopo l'età barbarica, la l. ebbe una grande fioritura in tutt'Europa: in particolare si irradiò dalla Provenza dove conobbe una ricca produzione ispirata ai temi dell'amore cortese. Degni eredi di questa poesia trobadorica furono in Italia la corte di Palermo che fu la culla della cosiddetta Scuola siciliana e lo Stil novo. Da questo punto in poi il destino della l. s'intrecciò con le sorti del volgare, legittimato nel rango di lingua letteraria: il genere trovò quindi in Francesco Petrarca il suo eccelso cantore. Imitata ovunque, nel risveglio dell'Umanesimo, la l. petrarchesca rappresentò un modello insuperato per almeno tre secoli in tutt'Europa. Con la produzione lirica proliferò anche l'opera teorica dei trattatisti: grazie a Minturno e ad Alessandro Guarini, critici del tardo Cinquecento, la l. venne definita come "il genere che imita il sentimento". In età barocca, la l. si trasformò seguendo il gusto dell'epoca, teso alla ricerca del sorprendente e dell'artificioso (gongorismo, marinismo). Seguì, per reazione un periodo di ricercata semplicità e di voluta ingenuità fanciullesca (Arcadia, particolarmente in Italia e in Francia, tra la fine del XVII sec. e quella del XVIII sec.). Appena dopo la metà del XVII sec. si risvegliarono anche in Germania e in Inghilterra nuovi motivi lirici che scaturirono in un lirismo patetico, talora lugubre. Da questo clima prese avvio la grande l. del Romanticismo, che celebrò le nuove forme di libertà politiche, morali e sociali, si erse in difesa delle ingiustizie umane, diede voce al sentimento che dal profondo si espande nell'infinito e da questo si ripiega sul proprio segreto dolore rappresentando il difficile rapporto tra l'io e il mondo; oppure cantò l'arte e la bellezza e attinse le immagini dagli eventi passati colti nel loro recondito senso di evoluzione storica. Un lirico tra più grandi dell'età romantica, quale fu Giacomo Leopardi riconobbe alla l. il primato dell'autenticità poetica in quanto "espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell'uomo". Nelle estetiche del Novecento, particolarmente in Croce, l'espressione lirica s'identifica con la poesia, mirabile sintesi di forma e sentimento. All'alienazione dell'uomo nella società moderna il poeta lirico (da Baudelaire in poi) contrappone un suo universo separato, onirico o simbolico che giustifica anche la rottura con il linguaggio tradizionale. La l. va sempre più intesa, nelle tendenze della letteratura contemporanea, come terreno di conquista di una dimensione autentica affidata innanzi tutto alle potenzialità espressive (musicali ed allusive) della parola poetica. - Mus. - L. da camera: composizione per voce e pianoforte o per voce e complesso strumentale, che ha per supporto un testo poetico. Comune nella produzione dei maggiori compositori del Novecento, tale genere trae la sua origine nella romanza vocale. ║ Nella lingua corrente con il termine l. si intende la musica operistica e il melodramma (V. OPERA).

Prati, Giovanni.

Poeta italiano. Intrapresi gli studi di Legge a Padova, nel 1840 fu imprigionato per un breve periodo perché sospettato dalla polizia austriaca per i suoi atteggiamenti patriottici e liberali. Recatosi a Milano nel 1841, conobbe Manzoni, Grossi e Torti e ottenne grande fama grazie alla pubblicazione della novella sentimentale in versi Edmenegarda. Trasferitosi a Torino nel 1843, P. strinse legami con Carlo Alberto, ma una campagna denigratoria nei suoi confronti messa in atto dagli avversari della causa risorgimentale lo obbligò ad allontanarsi dalla città. Tornò nel paese paterno, a Dasindo (dove nel 1923, dopo la liberazione di Trento, verranno traslate le sue ceneri), e si spostò successivamente a Padova, a Venezia e a Treviso. Dopo un altro breve periodo di prigionia nelle carceri padovane, nel 1848 accorse a Venezia, insorta, ma fu allontanato da Manin per la sua propaganda in favore dell'annessione al Piemonte. Per le stesse ragioni P. fu poi cacciato da Firenze ad opera di Guerrazzi e solo in Piemonte trovò accoglienza. A Torino divenne storiografo della Corona. Nel 1862 venne nominato deputato e, in questa veste, seguì il Governo a Firenze nel 1865 e a Roma nel 1871, dove assunse l'incarico di direttore dell'Istituto superiore di magistero. Nel 1876 fu nominato senatore. P. è ricordato in particolare perché la sua poesia, di stampo puramente romantico, riuscì a valicare i confini italiani avvicinandosi, con esiti però mediocri, a quella dei suoi contemporanei tedeschi, inglesi e francesi. Antidemocratico conservatore, gli elementi presenti nelle sue opere sono Dio, il re, la patria, la famiglia e, soprattutto, la borghesia, a cui si rivolgono i suoi lavori. La critica gli ha sempre imputato un'eccessiva variabilità stilistica, che lo condusse dal realismo degli esordi a una certa indeterminatezza di pensiero e di espressione, continuando poi con ambiziose avventure poetiche che avevano come punti di riferimento personaggi quali Byron, Goethe, Chateaubriand. Solo verso la fine P. decise di concentrarsi su un tipo di poesia più nitido e preciso, privo di quel sentimentalismo che tanto aveva caratterizzato i suoi lavori precedenti. Fondamentale per la conoscenza di P. è la raccolta, da lui stesso curata, Opere varie (5 volumi, 1875), comprendente, oltre al già citato Edmenegarda, Canti lirici (1843), Canti per il popolo (1843), Ballate (1843), Memorie e lacrime (1844), Nuovi Canti (1844), Passeggiate solitarie (1847), Storia e fantasia (1851), Canti politici (1852), nonché altre ballate e poemetti di minor interesse. Non fanno parte di questa raccolta, invece, gli scritti giovanili Poesie (1835), i poemi Rodolfo (1853), Ariberto (1860), Armando (1864-68) e le due ultime raccolte Psiche (1876) e Iside (1878) (Campomaggiore, Trento 1814 - Roma 1884).

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Poema.

(dal latino poema: composizione poetica, poesia, der. del greco poíēma: produzione, creazione). Componimento in versi di una certa estensione, di carattere narrativo, didascalico, allegorico, ecc. Generalmente diviso in canti o libri, metricamente è caratterizzato dalla solennità del verso, l'esametro in latino, l'endecasillabo in italiano. ║ P. epico: p. di argomento eroico, come l'Iliade, l'Odissea o l'Eneide. ║ Fig. - Questo è un p.: detto di un componimento che abbia un'estensione maggiore del normale. - Mus. - P. sinfonico: composizione per orchestra derivante dalla categoria della musica a programma, avente il fine di evocare vicende drammatiche, ambientazioni naturali, figure leggendarie, ecc. Testimoniata fin dal Medioevo e per tutto il Rinascimento, la musica programmatica trovò la sua più alta espressione nei classici: in L. van Beethoven (Pastorale) e in H. Berlioz (Aroldo in Italia). Il termine fu tuttavia impiegato per la prima volta da F. Liszt, che compose 14 p. sinfonici per sottolineare una maggiore libertà e pluralità tematica. R. Strauss interpretò il p. sinfonico quale dramma musicale, mentre C. Debussy scelse la forma del polittico, caratterizzato da distinti quadretti musicali.

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Igea.

Mit. - Dea della salute venerata dai Greci. Figlia di Asclepio, dio della medicina, venne rappresentata nelle sculture greche nell'atto di reggere un serpente e una coppa, spesso insieme al padre. Fra i gruppi scultorei che la ritraggono si ricordano in particolare quello della I. Hope, attribuita da alcuni a Scopa, e quello dell'I. da Epidauro, conservato ad Atene. I Romani la adorarono con il nome di Salus e di Valetudo.

Dèa.

(dal latino dea). Divinità femminile. ║ Fig. - Donna molto bella.

Carducci, Giosuè.

Poeta italiano. Visse i suoi primi anni a Castagneto e a Bolgheri, in Maremma. Studiò a Firenze presso gli Scolopi, passò poi alla Scuola Normale di Pisa e vi si laureò in Filosofia e Lettere nel 1856. Ebbe vita assai dura, date le infelici condizioni economiche della sua famiglia; il suicidio del fratello Dante nel 1857 e la morte del padre, sopraggiunta subito dopo, lo costrinsero a provvedere al mantenimento dei suoi con un duro e snervante lavoro di professore, editore e commentatore di testi. Nel 1860 il ministro Terenzio Mamiani lo chiamò alla cattedra di Eloquenza dell'università di Bologna, dove rimase fino al 1904. Nel 1890 fu nominato senatore e nel 1906 gli venne conferito il premio Nobel per la letteratura. Morì a Bologna, poco dopo aver ricevuto l'ambito riconoscimento. La prima formazione di C. è tutta libresca, contenuta in limiti angusti e provinciali, soprattutto se paragonata con le precedenti esperienze di Foscolo, Manzoni e Leopardi, che si erano arricchiti di un patrimonio culturale vasto e aperto, in una libera e mutua assimilazione di motivi ideali e morali validi sul piano internazionale ed europeo. Il C., in un primo tempo, si fece paladino dei classici, in contrapposizione ai romantici, intendendo schierarsi dalla parte della tradizione letteraria italiana contro il romanticismo, che egli dichiarava teoria forestiera. Maledicendo il secolo in cui era nato, proclamava la sua ammirazione per la poesia italiana e la sua incondizionata adesione a temi e schemi di questa. Nella prolusione pronunciata nel 1860 all'università di Bologna, additò i maestri sulle cui orme si sarebbe compiuto il rinnovamento letterario d'Italia; essi erano Monti, Botta, Giordani, Colletta, mentre ne veniva escluso Manzoni. Il suo primo libro di versi, Juvenilia (1850-60), è perfettamente in armonia con tali sue convinzioni. Si avverte in esso un lungo lavoro artigianale nella composizione del verso, ma difettano la spontaneità dell'ispirazione e il vigore della materia. Solo con la lettura degli storici francesi (Michelet, Quinet, Blanc, Proudhon), il C. allargherà il campo della propria cultura, mentre con l'assimilazione di motivi e forme della poesia straniera (Hugo, Shelley, Platen) la sua voce poetica si eleverà di tono. Egli rimarrà sempre, è vero, il rappresentante tipico del letterato italiano, però si avvierà verso orizzonti più aperti, raggiungendo il momento più alto e più vero della sua poesia. È il periodo dei Levia Gravia (1861-71) e, soprattutto, dell'Inno a Satana (1863) e dei Giambi ed Epodi (1867-79), in cui esprime il proprio violento giacobinismo. In seguito, il suo linguaggio poetico si fece più pacato e personale, tormentato e libero dalle imitazioni e dai pregiudizi letterari. Così, il suo canto si innalza alto ed equilibrato nelle Rime nuove (1861-87) e in molte delle Odi barbare (1877-89). Appartengono a questo momento i suoi versi più significativi e famosi: Idillio maremmano, Davanti San Guido, Faida di Comune, Comune rustico, Canzone di Legnano e i sonetti del Ça ira. La bellezza di questi versi consiste nella forza incisiva per cui i motivi del canto si traducono in precise immagini e sentite rievocazioni. Successivamente ebbe inizio la parabola discendente della sua poesia, che coincise esattamente con un processo involutivo delle idee politiche e civili del poeta. C., che in un primo tempo aveva a modello di virtù civica gli eroi un po' stereotipati del Metastasio, seguendo in ciò la buona tradizione letteraria e nazionalistica, si avvicinò in un secondo momento alle forze vive del rivoluzionarismo, incarnate dalla parte migliore della borghesia intellettuale del tempo. È questo il periodo, come si è detto, della sua produzione migliore. In seguito, deluso anche dallo sviluppo della vita sociale e politica nel nostro Paese, il C., come tanti altri uomini della sinistra garibaldina e mazziniana, tornò ad avvicinarsi alla monarchia sabauda, avviandosi a divenire il poeta laureato, ufficiale, interprete del pensiero politico e dello spirito della borghesia moderata a lui contemporanea. Nel momento stesso della sua ascesa agli occhi dell'opinione pubblica e del suo innalzamento al ruolo di poeta nazionale, esaltato e venerato dall'Italia umbertina, la sua vena poetica si andò isterilendo; gli alessandrinismi e i preziosismi servirono a mascherare, quando non soffocarono, l'ispirazione. L'artista, come già si è osservato, ebbe il sopravvento sul poeta. Nell'ode Alle fonti del Clitumno, il senso dell'attualità dei motivi polemici è assai attutito e quasi smarrito, sopraffatto dall'eloquenza splendida che apre la strada ai virtuosismi verbali, meravigliosi ma caduchi, caratteristici dell'età dannunziana. Lo stesso discorso vale, in parte, anche per la produzione in prosa di C., ma non gli rende del tutto giustizia perché, pur non avendo le basi di estetica e l'ampiezza di vedute di un De Sanctis, la sua opera come critico presenta alcuni aspetti notevoli. L'amore per la notizia precisa, per il fatto e la data, il gusto sicuro del letterato e l'intuizione, spesso facile, dell'artista rendono importanti e, in alcuni casi, preziose le sue osservazioni. I commenti alle Stanze di Poliziano, alle Rime di Petrarca e infiniti altri saggi sui più svariati argomenti della nostra storia letteraria, a partire dalle origini, fanno sì che la sua opera di critico e di storico abbia tuttora un valore e un interesse più alti di quanto non abbia voluto riconoscere certa critica estetizzante ed ermetizzante (Valdicastello 1835 - Bologna 1907).

Il poeta Giosué Carducci

Il poeta Giosué Carducci

Sòfocle.

Poeta tragico greco. Un'antica tradizione rapportava tutti e tre i grandi poeti tragici ateniesi alla battaglia di Salamina del 480 a.C.: Eschilo vi partecipò, Euripide sarebbe nato lo stesso giorno della battaglia e S. fu tra i giovani che intonarono il peana di celebrazione della vittoria. S. apparteneva a una famiglia dell'alto ceto ateniese e, per quanto ne sappiamo, non lasciò mai la sua città se non per svolgere incarichi al suo servizio; a differenza di Eschilo ed Euripide, partecipò intensamente non solo alla vita artistica di Atene ma anche a quella politica, ai più alti livelli. Nel 441-440 a.C. fu stratega con Pericle nella guerra di Samo e forse con Nicia nel 428-427 a.C. (quantunque il dato di questa seconda strategia sia assai incerto). Più importante di quella militare fu tuttavia la sua attività amministrativa, nella commissione finanziaria della polis di cui sembra probabile che avesse la presidenza nel 443-442 a.C., anno in cui furono introdotte riforme nel sistema tributario della lega marittima guidata da Atene. Dopo il fallimento della spedizione in Sicilia del 413 a.C., S. fu uno dei dieci probuli che dovevano gestire il passaggio a un Governo di tipo oligarchico, quello detto dei Quattrocento. La buona fama di cui godeva politicamente (immune com'era da estremismi) era tuttavia inferiore a quella che si guadagnò con la sua attività artistica: da giovane era stato attore, fu poeta lirico, ma in primo luogo tragediografo. Partecipò al primo agone tragico nel 468 a.C., conseguendo la prima delle sue 18 vittorie. In età alessandrina si conservavano ancora 130 fra tragedie e drammi satireschi di S.: a noi sono giunti solo 123 titoli e sette tragedie - Aiace, Antigone (V.), Edipo re (V.), Elettra (V.), Trachinie (V.), Filottete (V.), Edipo a Colono (V.) e circa una metà del dramma satiresco I cercatori di tracce -, mentre i suoi componimenti lirici e un trattato tecnico Sul coro sono andati persi. Secondo gli antichi, a S. si devono alcune importanti innovazioni tecniche nell'arte tragica: aumentò da 12 a 15 il numero dei membri del coro (coreuti), introdusse il terzo attore, proseguendo la riforma eschilea che già col secondo attore aveva limitato lo spazio del coro in favore della parola recitata (lo stesso Eschilo, poi, seguendo il collega più giovane utilizzò il terzo attore), arricchì la scenografia e i costumi (anche se non possiamo valutare adeguatamente questo dato, ricavato dalla Poetica di Aristotele, dal momento che non abbiamo testimonianze precise sulle tecniche scenografiche teatrali). Per quanto riguarda la struttura narrativa, infine, S. non seguì la forma unitaria delle trilogie di Eschilo, che legava i tre componimenti nel racconto tripartito di una stessa vicenda (Orestea, Sette contro Tebe, ecc.): S. divise la trilogia in tre drammi autonomi, conclusi in sé, e organizzati con rigore ed equilibrio compositivo, assumendo come tema cruciale e centrale della narrazione il destino del singolo protagonista. Le circostanze della morte di S. hanno variamente alimentato l'aneddotica biografica: secondo alcuni morì soffocato da un acino d'uva, secondo altri per lo sforzo seguito alla lettura pubblica di un lungo brano della sua Antigone, o, infine, per la gioia provata alla notizia di una vittoria. Si sa, tuttavia, che alla notizia della sua morte nel 406 a.C., Euripide, impegnato in una rappresentazione alle feste Dionisie, fece recitare il coro e gli attori vestiti a lutto e senza corona. Per quanto riguarda la cronologia delle tragedie note, l'Aiace pare la più arcaica, risalendo forse agli anni Cinquanta del V sec. a.C.; intorno al 442 a.C. (o comunque non molto prima dell'anno della strategia di S. con Pericle) va collocata l'Antigone; le Trachinie, secondo criteri di raffronto interno, sarebbero state composte dopo l'Antigone e prima dell'Edipo re; quest'ultimo, dal momento che è riconoscibile una parodia di un suo verso negli Acarnesi di Aristofane, è stato rappresentato prima del 425 a.C.; Elettra è opera tarda, rappresentata non molto prima o non molto dopo rispetto a Filottete, per il quale è certa la data del 409 a.C. Infine, l'Edipo a Colono fu rappresentato postumo nel 401 a.C. ║ L'opera: l'elemento tragico dell'opera sofoclea scaturisce in primo luogo dallo scollamento che i personaggi vivono tra il tempo umano e quello divino, tra il progetto di vita del singolo e il volere della divinità. Tanto Eschilo prima quanto Euripide poi si erano chiesti, davanti al dolore, se gli dei fossero giusti; di ciò invece S. non appare mai dubitare: gli dei sono sempre giusti. L'artista si impegna piuttosto nella ricerca e nel racconto di come agisca questa giustizia divina attraverso il dolore dei migliori (Aiace, Edipo, Eracle, Antigone, ecc.) che ne risultano abbattuti. Anche quando sussista una colpa (ad esempio nel caso di Aiace che ha peccato di superbia nei confronti di Atena), il castigo sortisce una purificazione, una gloria superiore in vista della quale gli dei l'avevano inflitto o permesso. La drammaticità si pone dunque non nel dubbio che riguarda la giustizia divina, ma nel limite umano che non è in grado di scorgere, nello svolgersi del suo tempo terreno, l'inevitabilità e la provvidenzialità della sofferenza, chiave di accesso alla pace e alla gloria dell'eterno. In questa incapacità di comprensione da parte dell'uomo affonda le sue radici la cosiddetta "ironia tragica", che rappresenta un tratto caratteristico dell'arte di S.: quanto più un personaggio cerca di sottrarsi alla ineludibilità degli eventi, tanto più contribuisce al loro necessario accadere. L'uomo non è passivo nel dipanarsi del proprio destino, ma contribuisce alla sua realizzazione, anche se essa si rivela, tragicamente, opposta ai suoi progetti: così, ad esempio, Deianira spera di riconquistare l'amore del marito Eracle offrendogli una camicia che invece gli dà la morte; Edipo crede di salvare Tebe dalla pestilenza e invece scopre di esserne lui la causa. Il volere divino opera dunque oscuramente dall'interno dell'uomo e all'uomo non resta che confidare nella divinità che infine, al di là del dolore, si dimostra misericordiosa. Questa è la pietas religiosa di S., che un verso delle Trachinie riassume potentemente: "Nulla [vi è] in tutto ciò che non sia Zeus" (Colono 496 a.C. - Atene 406 a.C.).

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